Payback, la gabella di Renzi da cancellare per salvare la sanità pubblica

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Gentile Direttore,
le scrivo per esprimerLe tutta la mia preoccupazione per i devastanti effetti che saranno prodotti dalle scellerate norme che hanno introdotto il cosiddetto “payback” sui dispositivi medici. Se il governo non farà nulla per cancellarle, andremo incontro a medici senza camici né mascherine, sale operatorie sprovviste di macchinari indispensabili per eseguire un esame o un’operazione chirurgica, infermieri impossibilitati a usare garze e cerotti. Uno scenario che può sembrare catastrofico, ma che è purtroppo dietro l’angolo.

Ma come siamo arrivati a questo? Tutto inizia nel 2015, quando l’esecutivo guidato da Matteo Renzi adotta un decreto-legge (poi convertito in sede parlamentare) che obbliga le aziende fornitrici dei dispositivi medici a risarcire quelle Regioni che hanno sforato il tetto di spesa. In pratica, ogni impresa è obbligata a pagare la metà dei soldi che ogni Regione ha sborsato in eccesso. La ratio del provvedimento è meramente economica, figlia dell’imperativo di contenere la spesa pubblica, oggetto di interventi normativi già dal 2011, con il governo Berlusconi che aveva fissato i “tetti”, cioè i limiti da non sforare. Renzi si è spinto ben oltre, introducendo una vera e propria imposta, priva di qualsiasi logica, capace di mettere a repentaglio un settore costituito principalmente da piccole aziende, animate da pochi dipendenti, i cui posti di lavoro sono oggi fortemente a rischio. Le imprese di dispositivi medici saranno costrette a versare una cifra di oltre 2 miliardi di euro, uno sforzo economico insostenibile per la maggior parte di esse.
Questo provvedimento è tuttavia anche figlio di una politica della sanità regionale ed ora nazionale che non garantisce un’efficacia della spesa pubblica e un’assenza di responsabilità diretta di chi si comporta in modo irresponsabile sia non garantendo i servizi adeguati ai cittadini, sia scaricando proprie responsabilità su altri soggetti.

Dal 2015 al 2022 il decreto di cui parliamo era rimasto di fatto lettera morta. Nel 2019, ben quattro anni dopo il provvedimento di renziana memoria, la Conferenza Stato-Regioni si è limitata a fissare i tetti di spesa per gli anni dal 2015 al 2018. E lo ha fatto retroattivamente. Il decreto Renzi prevedeva, infatti, che i tetti dovessero essere indicati entro il 15 settembre 2015 (è stato fatto quattro anni dopo!) e aggiornati ogni due anni.

Nel 2022, improvvisamente, il governo Draghi decide di dare una forte accelerata a tutto l’iter. A pochi mesi dalla fine dell’esecutivo, uno degli ultimissimi atti approvati (decreto Aiuti bis) ha avviato le procedure di ripiano, imponendo alle aziende la restituzione di oltre 2 miliardi di euro per i dispositivi medici che erano stati acquistati dalle Regioni tra il 2015 e il 2018. Soldi che non tutte le aziende hanno: le piccole e medie imprese hanno impiegato risorse per pagare i dipendenti, per le forniture, le bollette e tutte le spese che un’impresa deve sopportare nel quotidiano per andare avanti.

Non mi sento di negare che, complice la pandemia, qualche azienda ha fatto extraprofitti e suddiviso utili e non sempre le risorse aggiuntive spese sono state corrette. È quindi evidente, almeno a me, che quello che non funziona è un vero monitoraggio della corretta spesa sanitaria ed una reale responsabilità di dirigenti e politica. Nel disegno di legge che ho depositato sulla materia sarebbe molto più giusto stabilire che l’eventuale superamento del tetto di spesa regionale, posto a carico delle grandi aziende fornitrici di dispositivi medici, vada recuperato in particolar modo dalle spese sanitarie avvenute senza gara d’appalto o procedure competitive e dalle aziende con un elevato tasso di fatturato legato ai dispositivi unici sul mercato di cui posseggono il monopolio.

Il settore è composto per oltre il 98% da PMI e per meno del 2% da aziende facenti parte di grandi gruppi multinazionali. Niente a che vedere con il settore farmaceutico, da cui Renzi ha preso spunto per partorire il nuovo e cervellotico payback, frutto di un accordo a monte tra Governo ed AIFA e riguardante solo alcuni farmaci, che vengono commercializzati esclusivamente da grandi multinazionali con guadagni e margini molto alti.

Il governo Meloni ha rinviato i termini del pagamento del payback (inizialmente previsti a gennaio 2023) al 30 aprile di quest’anno, ma intanto centinaia di aziende hanno deciso di ricorrere al Tar del Lazio per chiedere l’annullamento dei provvedimenti normativi inerenti al payback, segnalando ai giudici amministrativi l’illegittimità costituzionale delle norme e la loro incompatibilità con il diritto europeo.

Ma al di là della controversia legale, esiste l’urgenza di condurre una battaglia politica, perché oggi non vedo soluzioni che risolvono i veri nodi. Dove è il piano di risparmio dell’asset sanitario che può avvenire ad esempio da una pianificazione di efficienza energetica e istallazione di energie rinnovabili? Dove è la responsabilità di chi sfora la spesa pubblica senza aggiungere servizi ai cittadini? Come si agisce lì dove il principio di concorrenza viene bypassato?

A questo si aggiunge il rischio che le PMI finiscano in pasto alle multinazionali perché insolventi e, nell’immediato, che un intero settore strategico collassi con il licenziamento di migliaia di lavoratori, mentre i nostri ospedali potrebbero non ricevere i prodotti indispensabili per salvare vite umane. Per tutti questi motivi, è urgente che il mio disegno di Legge delega venga approvato e che il governo trovi le soluzioni necessarie. Il tempo sta scadendo.

Fonte: quotidianosanita.it